Membro SLP e AMP, AME
Trascorsi 84 anni dalla morte di Sigmund Freud e 40 da quella di Jacques Lacan; trascorsi i tempi in cui l’interpretazione in psicoanalisi sortiva effetti immediati e stupefacenti, eccoci a parlare ancora di interpretazione. La faccenda non è risolta una volta per tutte, l’interpretazione continua a interrogarci in quanto non è avulsa dal reale con cui i LOM hanno a che fare e che muta secondo le epoche.
Fin dai primi incontri con chi viene a parlarci, capita — a me per prima ma anche a chi ascolto in controllo — di chiedersi che cosa potrà mai scalfire quel parlessere giunto con la sua domanda spuria, e soprattutto con un bottino di sapere scientifico, pseudoscientifico, o doxa, e talvolta ingaggiato in percorsi, sostenuti dalla medicina più sofisticata, non sempre passibili di reversione.
In un mondo dominato dal discorso della scienza; dove le religioni comandano i comportamenti umani — delle donne in particolare in certe comunità religiose; dove, per contro, l’Altro è svalutato, la Legge sbeffeggiata, la famiglia accartocciata su sé stessa o decisamente schiattata; dove i generi, che già dicevano poco su uomo e donna, sono andati a carte quarantotto per moltiplicarsi; dove i giovani sembrano quasi rimpiangere la “normalità” pre-sessantottina di fronte al fatto di ritrovarsi oggi sotto la “dittatura” di un’epoca che li vuole a Parigi e a NY e a Roma contemporaneamente e non sanno se mettere al mondo figli; dove in un batter d’ali siamo stati catapultati in un universo altro grazie a un virus che ha stravolto vita, lavoro, affetti, socialità, progetti, ideali, attese, confini generazionali, ci si domanda: quali effetti possibili dell’interpretazione? e da dove?
Un analista si trova oggi come se, abituato al tran tran del nevrotico, di colpo avesse a che fare con lo psicotico, mai visto prima! — proprio ciò che rende tanto difficile il lavoro di analisti non formati secondo l’insegnamento di Lacan: «Ah, io gli psicotici non li prendo!». Ovviamente sto estremizzando. Non è senza essere passati per la clinica delle psicosi e della femminilità che, con Lacan, siamo avvantaggiati rispetto ad altri. Di fatto, ci troviamo alle prese con dei LOM che non si tratta di collocare all’interno di una struttura, quanto di cercare di cogliere come se la cavino con il reale che sfugge e che la scienza non oblitera. Come annodano reale, immaginario e simbolico? E dunque, come sorprenderli lì, dove la catena inconscia, se si sarà messa in moto, incespicherà?
Il seminario di Lacan …o peggio, insieme a La conferenza di Lovanio, e Al di qua dell’inconscio di Miller, sono in questi giorni per me una bussola, dove, se si può e ancora, una parola, un silenzio, un rumore, un’astuzia del linguaggio, un taglio di seduta, possono produrre degli effetti di interpretazione. Insomma, c’è il “muro”, dice Lacan, «con un genere di cose che si prestano alla figurazione [muffe, macchie leonardesche, iscrizioni fatte di linguaggio…]», e poi «Un discorso chiamato scienza ha trovato il modo di costruirsi dietro il muro»[1]. Abbiamo a che fare con ciò che sta dietro il “muro” e l’ultimissimo insegnamento di Lacan ci guida a partire da un’altra nozione di senso. Avevamo l’idea del senso sul versante del discorso del padrone, universale, e poi il non senso e il fuori senso sul versante del reale e del godimento altro, adesso non ci accontentiamo più di questi sensi, ma tocca produrre un senso nuovo con un nuovo uso del significante[2].
Lacan si chiede da dove sorga il senso e afferma che «laddove si aggancia qualcosa che può assomigliare a un senso, il significato di un significante proviene sempre dal posto che quello stesso significante occupa in un altro discorso»[3]. Un mordersi la coda… Questo senso nuovo, allora, che cos’è? Da dove viene? Un senso che prende l’avvio da una “sconnessione”, da una “rottura di continuità”, da un «taglio articolato attorno a una sconnessione del rapporto del significante con il significato»[4].
Una scena riemerge a ripetizione nel corso dell’analisi: qualcuno (anonimo) la guardava da una finestra lontana mentre, giovanissima, si trovava in una situazione scabrosa di godimento, volutamente esposta allo sguardo altrui. La scena riemerge ancora non senza angoscia ed enigmatica. Un giorno, d’un tratto, dirà che nessuno la guardava. Nessuno?! esclama l’analista con enfasi tagliando la seduta. Torna turbata e spiazzata. Tempo di stagnazione dell’analisi, vacillamento dei sembianti. Poi, ancora ritorno sul non c’era nessuno, ma, questa volta, un balbettio, parole mozze, fino all’afonia. Taglio.
Un senso nuovo dalla «risonanza corporea»[5] si stacca da quel “nessuno” agganciato all’angoscia. Una risonanza che affaccia sul silenzio. Dirà: è come un vuoto.
Qualcosa non figura più sul “muro”, non più per lo stesso uso: la panoplia dei significati che sostenevano l’analizzante nel fantasma per darsi un nome, un’identità. Dirà: lo sguardo sono io. All’effetto di sorpresa è seguito il “risveglio”, «uno dei nomi del reale in quanto impossibile»[6], afferma Miller. Nuova fase dell’analisi.
Non sempre accade. A volte occorre parlare e non interpretare; smussare e dis-angosciare; attendere, persino, che la persona si dia conto di non voler intraprendere un’analisi. A volte si tratta di essere una semplice presenza viva e di stare a vedere. Là dove l’interpretazione può sorprendere, talvolta un certo tipo di ascolto, grazie a Lacan, può anche sorprendere.
[1] J. Lacan, Il Seminario, Libro XIX, …o peggio [1971-1972], Torino, Einaudi, 2020, p. 70.
[2] Cfr. J.-A. Miller, Al di qua dell’inconscio, in La Psicoanalisi, n. 63-64, Astrolabio, Roma 2018, pp. 40-67.
[3] J. Lacan, Il Seminario, Libro XIX, …o peggio, op. cit., p. 71.
[4] J.-A. Miller, Al di qua dell’inconscio, in La Psicoanalisi, n. 63-64, op. cit., p. 49.
[5] Ivi, p. 58.
[6] J.-A. Miller, Risveglio, in aa.vv., Scilicet. Il sogno. La sua interpretazione, il suo uso nella cura lacaniana, Rimini, Panozzo Editore, 2020, p. 9.