Membro SLP e AMP, AE

“È un’illusione, un’impasse il fatto di unilateralizzare l’interpretazione dal canto dello psicoanalista, come il suo intervento, la sua azione, il suo atto, il suo detto, il suo dire. (…) L’interpretazione non è stratificata nei confronti dell’inconscio; non è di un altro ordine; si iscrive nello stesso registro; è costitutiva di questo registro; quando l’analista ne prende il relè, fa la stessa cosa dell’inconscio (…)”.[1]

Il tema del prossimo Convegno della SLPcf, Interpretazioni esemplari che hanno avuto effetti, mi ha fatto subito pensare all’esperienza con un soggetto che risale a molti anni fa, quando lavoravo in comunità psichiatrica.

Si tratta di un insegnamento che è rimasto per me vivo nel tempo.

Avevamo accolto una giovane, un soggetto la cui diagnosi era al limite fra psicosi e disabilità.

Uno di quei casi di cui i curanti non capivano nulla, tranne che bisognava tenerla lontano dalla madre, tanto è vero che dall’isola in cui viveva era stata trasferita “nel continente”.

In questo modo la madre non poteva venire a trovarla tanto spesso e questo limitava un po’ la devastazione che si produceva quando, appena varcata la soglia della comunità, vedendo Isa, la prima cosa che le diceva era “ma quanto sei ingrassata!”.

A quel punto, l’incontro finiva puntualmente con urla, pianti, accuse della signora alla comunità che non era in grado di regolare l’alimentazione della figlia, operatori che cercavano di placare la furia di Isa, che durava anche nei giorni seguenti.

Se è vero che c’era “del sovrappeso”, non era questo il motivo per cui Isa si trovava in istituzione.

Oltre alle difficoltà con la madre, c’era anche il fatto che era ipovedente, al limite della cecità.

Una cecità che si presentava, nella vita quotidiana in comunità, a tratti, agli occhi di noi operatori, enigmatica: al di là della diagnosi medica, non era sempre chiaro se, cosa, come e quando vedeva!, producendo non poche difficoltà sia negli operatori che negli ospiti.

Avevamo così deciso di attrezzarci per supplire un po’ a questa condizione – ad esempio mettendo dei mancorrenti lungo i corridoi –, non troppo.

Anche su questo, però, la mamma di Isa rimarcava puntualmente che non era quello il luogo opportuno per la figlia!

Dal canto suo, invece, Isa, in quel non-tutti presi a colmare le sue mancanze, non se la sbrogliava male: con i suoi tempi e i suoi modi una direzione, per orientarsi nella comunità, riusciva quasi sempre a trovarla, anche da sola.

Nel corso dei mesi avemmo modo di verificare che le difficoltà nei legami per lei non erano solo nei confronti della madre, ma anche con diversi ospiti della comunità.

Insomma, ci metteva del suo per arrivare al conflitto che si concludeva sempre nello stesso modo: urlava per la comunità accusando questo o quell’ospite di averle detto che era grassa.

Crisi profonde, richieste di andare via, telefonate alla mamma che insultava gli operatori per non essere stati capaci di difendere la figlia.

Un giorno mi trovavo in comunità e sentivo chiaramente le urla di Isa a causa dell’ennesimo litigio. Dopo poco, era entrata nel mio studio come una furia urlando: “Qui tutti mi prendono in giro perché dicono che sono grassa!”. Senza accorgermene, mi trovo a dire con enfasi: “La prenderebbero in giro se le dicessero che è magra!”.

L’effetto di sorpresa tocca nel corpo entrambe, in modi differenti.

Faccio l’ipotesi che sarà stato quell’atto che avrà permesso a Isa di dire, dopo poco, con un filo di voce “io non voglio vedere…”, a cui farà seguito il mio “non è obbligata!”.

Da quel momento parteciperà con entusiasmo al laboratorio di cucito!

Dalla psicoanalisi impariamo che “(…) un’interpretazione deve avere di mira smuovere la fissazione di godimento. L’interpretazione dell’analista è una stoccata al senso (che) libera così il godimento, che cessa di essere legato al resto significante e cerca un altro destino. (…) L’interpretazione alla fine è un dire senza valore, che non merita di essere ricordato come significato. Si tratta di un dire che sottrae. L’interpretazione che tocca il reale esiste quando si apre una fessura, si produce uno iato tra la voce e il senso.”[2]

Il rovescio dell’interpretazione, di cui parla Jacques-Alain Miller e a cui invita gli analisti, prende come paradigma il fenomeno elementare, l’S1 isolato che si tratta di mantenere nella condizione di strutturale opacità in cui affonda il rapporto del soggetto con il suo godimento.

Nel caso di Isa, la mia ipotesi è che il significante “magra” non si sia prodotto, dal lato dell’analista, in quanto S2, ma abbia rappresentato un taglio sul godimento mortifero dello sguardo materno – “grassa” – da cui Isa ha potuto trovare un po’ di riparo, ricamando.

[1] J.-A. Miller, Il rovescio dell’interpretazioneLa Psicoanalisi n. 19, Astrolabio, Roma 1996, p. 122.

[2] R.E.Manzetti, Dell’interpretazione, in Il desiderio. La sua interpretazione e la sua causa, a cura di M.L. Tkach, Antigone edizioni, Torino 2017, p. 125.