Partecipante SLP

Dalla Segreteria di Rimini arriva un invito interessante: lavorare il tema del Convegno nazionale in una modalità intersegreteria. La tecnologia, supporto valido in questo momento pandemico, rende più agevole questa possibilità. Accetto, ma il lavoro immantinente inciampa. Commetto un “errore” di interpretazione. Capisco che mi viene chiesto di scegliere un testo tra quelli della bibliografia in costruzione e di farne un commento. Solo a ridosso della scadenza realizzo che l’indicazione era diversa. Non si trattava di scegliere tra un testo della bibliografia e commentarlo, ma di scrivere un proprio testo a partire da quelli circolanti.

L’ “errore” richiama un’interpretazione analitica: «sapere e non sapere – essere e non essere – sotto lo sguardo dell’altro la fanno vacillare … fanno sparire il soggetto».

Questo fendente ha procurato vertigini che si sono (ri)presentate quando un mio intervento, con una giovane donna che non sa cosa l’appassioni in termini universitari, puntava a far risuonare un significante. Qui un breve inciso: nel tentativo di far echeggiare il significante l’analista deve compiere una valutazione. Deve considerare la struttura. Far vibrare un significante non è la stessa cosa nelle nevrosi e nelle psicosi.

Mi rimetto al lavoro seguendo la strada indicata e quella intrapresa a partire dall’ inconscio.  Avevo scelto come testo guida una lezione del corso di Jacques-Alain Miller L’Uno-tutto-solo, a cui Antonio Di Ciaccia ha dato il titolo L’essere è il desiderio.

L’interpretazione è il primo sussulto polmonare della psicoanalisi: Freud inizia così. Attua il passaggio dallo sguardo psichiatrico all’ascolto psicoanalitico: riconosce all’isteria la capacità di convertire il pensiero “impensabile” in linguaggio d’organo, una forma di comunicazione dotata di senso… da interpretare. L’interpretazione è sui due lati dei protagonisti coinvolti nel processo analitico: quella dell’inconscio e quella dell’analista. Miller sottolinea il fatto che è innanzitutto l’inconscio a interpretare. L’inconscio interpreta e al tempo stesso vuole essere interpretato. L’analista interpreta al suo seguito[1].

Il sogno è un esempio di interpretazione dell’inconscio, selvaggia, ma è una interpretazione. L’interpretazione dell’analista invece, come indica Lacan, è una interpretazione ragionata. Ragionata e non appresa da un manuale. Ragionata e marchiata dalla propria esperienza analitica; ragionata e legata al lavoro di controllo dove, come scrive Miller, si apprende ad acquisire una certa potenza della parola[2]. Ragionata, ma non certa negli effetti. Solo a posteriori si potrà decidere se l’interpretazione era giusta o no. L’analista, come riprende Massimo Termini nel suo contributo al Convegno, non può andare, nella propria pratica come analista, oltre la propria analisi[3].  L’ultimo Lacan mette in risalto l’opacità del reale. Qualcosa resta imprendibile con la parola. Nel sogno si incontra l’ombelico del sogno: quel punto che non si lascia diluire, sbrogliare. Quel punto che rimane oscuro, non scioglibile. L’interpretazione ha a che fare con questo enigma. Per riuscire a puntare, con essa, qualcosa della causa è necessario che l’analista abbia estratto la logica del sintomo e circoscritto il reale che lo alimenta(va).  È necessario che l’analista abbia incontrato il proprio indicibile, la propria zona di nebbia indissipabile.

Nella nota editoriale al numero 3 de La Psicoanalisi, Colette Soler scrive che l’interpretazione può essere usata al plurale; una pluralizzazione data, per esempio, dalla distinzione tra l’interpretazione che isola, circoscrive, un significante principale e quella che invece produce la significazione. Inoltre non si può parlare di interpretazione e dei suoi effetti senza considerare il momento della cura e ignorando la struttura.

Miller scrive: «A partire da ciò che faccio come analista, come posso essere causa di una trasformazione che tocchi il nucleo dell’essere? […] Qual è questa azione?»[4]. Nel rispondere a tale quesito ci indica la strada tracciata da Lacan: l’azione in questione è l’interpretazione. «Deve esserci omogeneità tra l’azione dell’analista e l’essere al quale si applica»[5]. L’interpretazione opera nell’ordine del senso. Qui un punto nodale: «Ciò che Lacan chiama il soggetto è precisamente il correlato dell’interpretazione, un soggetto che non ha essere che tramite essa, un essere variabile in funzione del senso»[6]. Da qui la distinzione tra l’ordine del senso e quello del reale: queste due dimensioni non comunicano tra loro né l’una decide dell’altra. L’interpretazione come donazione di senso comporta che l’analista sia attento alle modalità semantiche con cui l’analizzante comunica ciò che vive: «L’interpretazione fornisce anche senso, ma per permettere una venuta all’essere, di far essere ciò che non era, di cui si può inferire che ça vuole essere anche se il soggetto non se lo confessa»[7].

Anche il senso, quindi. Anche. Miller, magistralmente ci indica il passaggio di Lacan dal riconoscimento alla causa. Nel suo primo insegnamento il soggetto è presentato come mancanza-a-essere e il nucleo dell’essere di ciascuno è il desiderio inconscio; desiderio mai padroneggiabile completamente. Si tratta quindi di interpretare il desiderio e in questo quadro l’interpretazione è creazionista. Grazie alla separazione tra desiderio e domanda Lacan è andato oltre l’idea del desiderio come riconoscimento. C’è qualcosa che il desiderio domanda, il riconoscimento appunto, e c’è un al di là della domanda. Ecco che si passa dal riconoscimento alla causa.

Questo ha prodotto degli effetti nella pratica: nel primo insegnamento l’interpretazione punta al riconoscimento, allo svelamento del desiderio sottinteso (ogni volta che si lavora un sogno si pratica l’interpretazione come riconoscimento del desiderio inconscio «imprenditore»[8] del sogno, scrive Freud).

In seguito Lacan propone un passaggio/avanzamento: l’interpretazione verte sulla causa del desiderio. Con C’èdell’uno Lacan supera la propria ontologia semantica. Va oltre la mira del senso: «È un cambiamento enorme perché noi abbiamo imparato con Lacan a ricostruire la storia del soggetto a partire dalle avventure del senso del suo essere. Non dico che ora, nella pratica, possiamo astenercene, ma dico che al di là c’è ancora un c’è»[9]. Con il primato dell’Uno il godimento viene in primo piano. Non ci si astiene dal senso, ma si va oltre. C’è dell’altro oltre il senso. Del resto, mi è sempre stato impossibile pensare il fuori senso senza il senso.

Con Colette Soler abbiamo visto come si possa parlare di interpretazione al plurale; con il testo di avvio ai lavori è stata fatta un’operazione di messa in rilievo interessante: interpretazione e effetti, interpretazione e risveglio, interpretazione e rettifica soggettiva, interpretazione e sintomo, interpretazione e identificazioni (da far cadere o rinvigorire).

Prendo due aspetti: effetti e rettifica soggettiva.

Quando si parla di interpretazione bisogna tendere l’orecchio ai suoi effetti perché sono quelli che possono testimoniare della presenza di un’interpretazione giusta o no. Non è il sì o il no dell’analizzante o la convinzione dell’analista a convalidare un’interpretazione. Si potrà sapere solo dopo se è giusta a partire dagli effetti che essa produce — o non produce. L’interpretazione creazionista, quella del primo insegnamento, rivela una verità rimasta latente. In presenza di un sogno si chiede all’analizzante di associare, di parlare delle cose che gli vengono in mente a partire dalle immagini oniriche.

Come scrive Marco Focchi[10] si cerca di attuare un passaggio dal piano dei pensieri manifesti a quello dei pensieri latenti: facendo scorrere la catena di S1 e S2 si fa sorgere la verità del desiderio inconscio. Sappiamo, perché la clinica lo insegna, che non sempre questo traghettamento dal manifesto al latente si rivela possibile. Per alcuni soggetti le associazioni vertono unicamente sul piano della realtà.

Con il godimento in primo piano l’interpretazione cambia e non si tratta più di verità da svelare, ma di isolare dei significanti padroni che hanno inciso e marchiato il corpo e sostentano la ripetizione. Ovviamente in una cura psicoanalitica le due cose non si escludono. L’ultimo Lacan non cancella il primo: si analizza un sogno puntando allo svelamento della verità del desiderio inconscio e alla circoscrizione dei significanti padroni.

Per ciò che concerne la rettifica soggettiva, mi rifaccio al testo di avvio ai lavori che a sua volta cita Miller: «Io credo alla rettificazione soggettiva di cui parla Lacan nella Direzione della cura, la rettificazione soggettiva permanente, che consiste nel chiedersi qual è la responsabilità che abbiamo nella disgrazia di cui ci lamentiamo»[11]. Ecco qui l’interpretazione come «un dire, [che] cambia il soggetto»[12]. Il lavoro analitico, l’interpretazione che esso chiama in causa, può essere incontro felice per una nuova possibilità di vita o almeno di lettura della vita.

[1] Cfr. J.-A. Miller, Il rovescio dell’interpretazione, in La Psicoanalisi, n. 19, Astrolabio, Roma 1996, pp. 122-123.
[2] Cfr. J.- A. Miller, A. Di Ciaccia, L’Uno-tutto-solo, Astrolabio, Roma 2018, p. 151.
[3] Cfr. M. Termini, Il fondo opaco dell’interpretazione, disponibile su https://www.slp-cf.it/contributi-lettere-al-convegno/
[4] J.- A. Miller, A. Di Ciaccia, L’Uno-tutto-solo, op. cit., p. 155.
[5] Ibidem.
[6] Ibidem.
[7] Ivi, p. 156.
[8] S. Freud, L’interpretazione dei sogni, in Opere, Boringhieri, Torino1996, vol. 3, p. 511.
[9] J.- A. Miller, A. Di Ciaccia, L’Uno-tutto-solo, op. cit., p. 159.
[10] M. Focchi, Riflessioni su verità, godimento, vergogna, disponibile su https://www.marcofocchi.com/il-buon-uso-dellinconscio/riflessioni-su-verita-godimento-vergogna
[11] J.-A. Miller (a cura di), Il segreto dei lacaniani, Antigone edizioni, Torino 2008, p. 264.
[12] J. Lacan, L’atto psicoanalitico, in Altri scritti, Einaudi, Torino, 2013 p. 369.