Membro SLP e AMP, AME

“Non ci si stupisce più di nulla”. Frase ripetutamente ascoltata, che potrebbe essere uno degli emblemi della contemporaneità in cui viviamo e nella quale svolgiamo la nostra funzione come psicoanalisti.

Da quando esiste, il discorso analitico è il rovescio di quello del padrone, del discorso comune circolante in ogni epoca. È così; superfluo, se non deleterio per gli analisti lamentarsene.

Offrendo una logica inversa a quella del discorso del padrone, il discorso analitico può avere la sua efficacia, nelle cure e a livello politico e sociale.

Constatiamo che la sorpresa è un effetto presente, nonché imprescindibile dell’operazione psicoanalitica fondamentale, l’interpretazione.

Sin dall’inizio della pratica freudiana e, per indicare una data, fino alla svolta del 1920, l’interpretazione analitica aveva la sua efficacia e i suoi effetti di sorpresa, nella misura in cui con essa l’analista poteva produrre il sollevamento delle rimozioni e, di conseguenza, lo svelamento degli elementi inconsci rimossi, causa dei sintomi.

Il segreto svelato dell’esistenza dell’inconscio, in quanto sede di antiche rappresentazioni rimosse stanti alla base del sintomo nevrotico, fu per tutto un tempo il combustibile che alimentava la macchina interpretativa della psicoanalisi, come presupposto alle analisi, una per una.

Freud, però, è stato costretto, dalla ripetizione del medesimo[1] incontrato nelle cure, a riconoscere un al di là del principio di piacere. Questo ha modificato la finalità dell’analisi: non più unicamente lo svelamento dell’inconscio, ma – con Freud – arrivare fino alla roccia della castrazione, rimanendovi però al di qua. Anche l’interpretazione si è vista cambiare. Non si sarebbe più potuto trattare unicamente di tradurre il significato occulto nel e dall’inconscio ma, a partire da quel momento, l’interpretazione avrebbe dovuto consentire al paziente di cogliere che, comunque, ciò che dell’inconscio poteva essere significato, si sarebbe imbattuto contro quella roccia.

Puntando all’elemento interpretativo e interpretabile, dicibile, del soggetto, in entrambi i casi, gli effetti di sorpresa necessari all’interpretazione in psicoanalisi, non potevano se non che essere minati, all’interno di una pratica che rischiava di tener conto prevalentemente della ripetizione significante, senza riuscire a cogliere sufficientemente il modo in cui poter incidere sul punto di reale singolare di ciascun analizzante.

Forse il rischio sia, in quel caso, quello di ricadere nella logica del  discorso del padrone – che è la logica dell’inconscio – subito dopo esserci usciti per un istante.

Domandiamoci cos’è che produce l’effetto di sorpresa nell’interpretazione analitica.

L’analizzante, impegnato nella libera associazione, parla senza sapere ciò che dice: condizione sine qua non del lavoro analitico.

Altra condizione: che l’analista si autorizzi in quanto tale, vale a dire, che acconsenta a prendere parte nell’impresa come non sapere incarnato, incarnando l’oggetto a scarto, che è ciò che causa, a sua insaputa, il dire dell’analizzante.

L’inconscio del parlessere ha già interpretato, e dunque ricoperto il buco del sapere sul rapporto tra reale e senso. Quell’interpretazione che si è fissata nel fantasma e che si ripete nel sintomo, costituisce il malinteso fondamentale della sua “malattia mentale, che è l’inconscio”[2].

I bla bla che ascoltiamo nelle sedute testimoniano di quell’operazione di tentativo di risaldare il buco reale, portata avanti in un primo tempo dalla lalingua, in un secondo tempo dal linguaggio.

“Cosa succede quando si cambia di senso, quando uno orienta la cosa in un altro modo? […] Cos’è la neutralità dell’analista se non appunto quello, questa sovversione del senso, vale a dire questa specie di aspirazione non verso il reale, ma per il reale”[3].

Possiamo intendere in questa frase del Seminario di Lacan un orientamento rispetto all’interpretazione, e anche ai sui effetti di sorpresa?

Si potrebbe dire che l’interpretazione debba puntare a “sovvertire il senso”? Nello specifico, il senso comune, che è quello che circola nel discorso comune, ma anche quello che l’analizzante intende – in primis, lungo tutto un tempo della cura – dalle/nelle parole proferite dalla sua bocca?

Con il suo ultimo e ultimissimo insegnamento, Jacques Lacan ci ha lasciato una cartografia a partire dalla quale orientarci rispetto al brodo di linguaggio[4] di ciascun analizzante, che l’analista può prendere come una carta geografica.

Una carta geografica è qualcosa che si legge.

Infatti, già dieci anni prima, nella Proposta del 9 ottobre 1967 sullo psicoanalista della Scuola[5], Lacan avvertiva che l’unica cosa che l’analista deve saper fare è leggere, leggere in un altro modo.

Lo psicoanalista trasforma, orientato per il reale, con l’interpretazione che è lettura, il detto in letto, riportando la parola al suo statuto di lettera che, nell’analisi, giunge sempre a destinazione.

Al rovescio dell’individuo che si lascia addormentare e terapeutizzare dai discorsi vacui del senso comune e da oggetti pieni del discorso del capitalista, eludendo così la possibilità di stupirsi, l’analizzante è qualcuno che ha preso l’insondabile decisione di acconsentire a farsi dupe del reale, lì dove esso appare di sfuggita nel lampo di
un’inter-pret-azione.

[1] Cfr. J.-A. Miller, Il nuovo e il medesimo, Il Nuovo, Editrice Astrolabio, Roma 2005.
[2] J. Lacan, Seminario XXIV, lezione del 17/05/1977.
[3] Ivi, lezione del 26/02/1977.
[4] Cfr. J. Lacan, Seminario XXIV.
[5] J. Lacan, Proposta del 9 ottobre 1967 sullo psicoanalista della Scuola, in Altri Scritti, a cura di A. Di Ciaccia, Torino, Einaudi, 2013.