Membro SLP e AMP.
Oggi possiamo affermare che l’interpretazione è dappertutto, estesa ad ogni campo del sapere: storia, politica, poesia, in cerca di estrarre e di aggiungere significati diversi, spiegazioni e ulteriore sapere. L’interesse per l’interpretazione attraversa l’intera storia del pensiero occidentale, si dialettizza nel tentativo di cogliere la relazione dell’uomo con la verità, pur riconoscendo che la verità custodisce parzialmente il suo segreto. È il godimento del Novecento, quando il concetto di interpretazione viene trasferito dalla filosofia alla scienza del testo, prendendosi la briga di attribuire un tipo di ruolo all’autore. Molte sono le posizioni critiche dell’interpretazione ma è un processo che trova i propri limiti e le proprie risorse nel contesto. Quale differenza quindi per l’interpretazione analitica?
L’interpretazione in un contesto analitico, in un percorso d’analisi e specificatamente nello spazio di una seduta analitica non è equivalente al procedimento ermeneutico perché non procede all’infinito; c’è un punto di spaccatura che fa da limite tra il senso e il non senso, come il progredire della teoria di Lacan insegna. Per inquadrare meglio la differenza tra ciò che distingue l’interpretazione comune in senso lato da quella analitica, credo sia necessario tenere in considerazione almeno due elementi strutturali dello scenario analitico: il transfert e l’inconscio. Senza questi due fattori fondamentali non c’è analisi. J. Lacan ha dedicato infatti un Seminario intero, l’XI, ad elaborare “I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi”: l’inconscio, la ripetizione, il transfert e la pulsione.
Senza transfert niente analisi.
Nel Nuovo De Mauro la definizione di interpretazione in psicoanalisi è: “procedimento terapeutico attraverso il quale l’analista mira a comunicare al soggetto il senso latente contenuto nei suoi sogni, nei suoi discorsi o nei suoi comportamenti”[1]. Evidenziamo quel “suoi”, in quanto l’analista lavora, legge e interpreta, quando è possibile, con il materiale offertogli, via transfert, dal soggetto che rivela, non senza sforzo, i suoi inciampi, i suoi tic e i suoi sintomi. Tuttavia l’analista non comunica, come ai tempi di Freud, ma accoglie e puntualizza letteralmente, si arresta, arresta la seduta sul detto dell’analizzante affinché questo detto possa diventare un dire, cioè porti alla luce quel significato staccato, rimosso che costituisce parte del sintomo: “le pulsioni sono l’eco nel corpo del fatto che ci sia un dire […] perché risuoni […] bisogna che il corpo sia sensibile”[2]. Quel “è già scritto” si riattiva nel presente e produce una retroazione temporale che precipita il presente nel passato e al tempo stesso la diacronia della narrazione si sposta verso il futuro: “l’interpretazione stabilisce una connessione tra il fuori tempo dell’inconscio, cioè il suo passato definitivo, la sua iscrizione per sempre, e il presente dell’analizzante […] con un rinvio della parola alla scrittura”[3].
È lecito dunque comprendere che la presenza dell’analista sia l’operatore di questo procedimento specifico che trasforma e mette al lavoro l’immaginario e le parole stesse del soggetto. Diciamo che l’interpretazione è strutturale al tempo stesso della parola del soggetto e si presta ad attualizzare nel presente l’iscrizione del passato: la memoria significante agisce nel presente, una sorta di capitonaggio dei significanti che insistono, si ripetono di volta in volta lungo il procedimento della cura. Non tutto quello che proferisce l’analizzante ha lo stesso valore e la stessa pregnanza, perché appunto alcuni significanti si declinano a più livelli, nel simbolico, nell’immaginario e nel reale, e quelli che si ripetono sono destinati ad avere una presa sul corpo: alcuni fanno piangere, altri sorridere, altri suscitano rabbia e altri provocano angoscia: il significante morde sulla carne quando non è solo bla bla. “Se l’interpretazione è la significazione, è per far sorgere il significante primordiale in quanto […] non-senso. Da questo punto di vista l’interpretazione […] ha la stessa struttura della rimozione”[4]. L’interpretazione può e deve anche cogliere di sorpresa, provocare un effetto di reale poter far scaturire un significante nuovo, un significato inedito, mai emerso in precedenza che interrompe la routine narrativa e infrange una ripetizione che può rendere possibile riorientare il discorso del parlessere. Miller definisce l’interpretazione come sorpresa, un evento, ossia l’effetto dell’inatteso, dell’imprevisto che rettifica la posizione del soggetto e inaugura una lettura soggettiva diversa del suo materiale simbolico e immaginario che pesca nel reale e, infrangendo una rimozione, la riposiziona dove è necessaria. Una vera e autentica interpretazione oltre a lavorare sul senso dovrebbe poter avere degli effetti sul reale per interrompere una ripetizione che ha effetti sul reale del godimento, su quell’apparecchio pulsionale che è incessantemente all’opera e ci imbroglia sotto traccia in maniera subdola, impegnando la libido psichica della mente e del corpo. Erodere il godimento sintomatico libera parte della libido che può essere utilizzata in attività soddisfacenti e singolari, fare spazio alla creazione e ad una maggiore libertà. Tuttavia avveduti che nessuna attività, nessuna interpretazione potrà colmare il vuoto primordiale, la mancanza di senso e l’incognita del reale della vita.
Possiamo perciò sostenere che non c’è analisi senza transfert, non c’è analisi senza inconscio, ma non c’è nemmeno analisi senza interpretazione. Parafrasando Lacan: l’interpretazione è l’ora della verità dell’analista, perché interroga la pratica analitica e la sua efficacia, d’altronde “l’interpretazione…è vera solo per il suo seguito…è vera solo in quanto è veramente seguita” solamente se ha degli effetti.
Tuttavia ci sono interpretazioni vere che possono mettere a repentaglio l’esito del trattamento, pur facendo centro, se il legame transferale non è consolidato e se il tempo dell’intervento è in anticipo o in ritardo. La teoria della singolarità oltrepassando l’interpretazione edipica o di senso, cerca di limitare il godimento attraverso il non senso mirando al reale del godimento, a quel godimento che si scrive in modo indelebile nel corpo: l’evento di corpo non è decifrabile perché è il non senso incarnato.
[1] Il Nuovo De Mauro, https://dizionario.internazionale.it
[2] J. Lacan, Il Seminario, Libro XXIII, Il sinthomo [1975-1976], Astrolabio, Roma, 2006, p. 16.
[3] J.-A. Miller, Introduzione all’erotica del tempo [2004], in La Psicoanalisi, Astrolabio, Roma, 2005, n. 37, p. 36.
[4] J.-A. Miller, Piccola introduzione ai poteri della parola [1994], in I paradigmi del godimento, Astrolabio, Roma, 2001, p. 135.